Il rumore della sveglia
a dir poco assordante. Occhi spalancati. Che ore sono? Le nove. Le nove e
qualcosa. Richiudo gli occhi. Con la mano cerco di fermare questo fastidioso
rumore di sirena. Lo fermo al terzo tentativo. Ho un freddo porco. Sono vestito
e sotto le coperte, ma ho un freddo maledetto. Non ricordo che giorno è, ma so
bene che sono passati quarantasette giorni da quando Paola è andata. Non so
nemmeno dove, i primi giorni rispondeva al telefono, dispiaciuta. Poi basta.
Una visita, solo una, la prima volta che mi hanno tirato per strada e portato a
quel maledetto pronto soccorso. Mi ha detto che le facevo pena, non più amore.
Dieci anni, capisci? Dieci anni di questa vita con lei, i respiri di notte, le
colazioni, persino l’addio alle bistecche di carne. Tutto cazzo. Tutto. E poi?
E poi il fottuto niente. Una mattina salta fuori con delle frasi strane, mai
sentite, mai. Che alla fine io sono cambiato, in troppe cose, a quanto pare
anche nel modo di parcheggiare la macchina. A quella frase sorrido. Lei no. Mi
aveva già fottuto con quell’altro. Ma non sapeva come dirlo. A me, che sono
stato l’onestà nella sua vita per anni. E lei non è in grado di dirmelo. Poi lo
scopro da me. Lei confessa, con qualche lacrima di troppo. Perché se fai una
cosa, non è che ti spiace poi così tanto. Altrimenti non lo fai, no? Io dico
non è vero, cazzo, non è vero. E invece si. Tutto finito, mi vomita addosso
pure le colpe che non ho, lavarsi l’animo è comodo. Ma ok. Mi ripeto per
qualche giorno che sono cose che capitano. A chiunque. Per i primi due giorni
l’ho guardata disfare armadi e ascoltata mentre diceva di lasciarla in pace.
Per altri due giorni ho guardato il vuoto, l’ho respirato. Come lo spazio
lasciato nell’armadio. Come tutta la femminilità andata via da quella casa. Ho
pianto fino che avevo lacrime in corpo. Poi ho continuato a piangere. Mi sono
addormentato sul divano. Con il telefono in mano, mentre ceravo di chiamarla.
Poi ha staccato il telefono. Ho deciso di lavarmi, vestirmi a nuovo, fare due
passi in centro. Almeno ci si svaga un poco. Incapace di parlare con qualsiasi
individuo, me ne vado a volto basso per le vie. Ho comprato pure delle
sigarette. Cazzo, io che non ho mai nemmeno fumato in questi miei
trent’anni. Una sera ho deciso pure di
ubriacarmi. Ma non è che sia stato un gran divertimento. Mi sono solo vomitato
addosso quello che non avevo mangiato per cena. E mi sono ritrovato con un mal
di testa grande come una casa per un paio di giorni. Ho capito che la mia
disperazione non ha limite. Non ci avevo mai pensato, prima. Certo, se le cose
non ti accadono che cazzo di pretesto usi per pensarci. Non siamo mica scemi.
Siamo umani. Ho iniziato a isolarmi sempre più. Anche in ufficio, con i miei
amici. La sera ho iniziato a camminare, da solo. Seduto a guardare le persone.
Sembravo un matto. Mica lo ero. Solo una persona che ha perso tutto. Di
conseguenza con grossa dose di tristezza addosso. Una sera ho dato venti euro
per la cena ad un barbone, ho provato stupidamente compassione per lui. In
realtà, era lui a compatirmi. Il vero emarginato ero io. Ho iniziato a parlare
con lui, ogni sera di più. Passavo a trovarlo. Un tipo simpatico. Certo preso a
piccole dosi. Dosi appunto, una sera mi ha offerto una dose, come un vero
amico. Eroina. Ho sorriso e detto no grazie. Per diverse sere ho detto di no,
ascoltandolo decantare questa siringa come esperienza non paragonabile. Ho
sempre detto no. Poi un giorno Paola mi ha scritto di aver cambiato residenza,
e che il giorno seguente suo padre sarebbe passato da me a prendere quel
vecchio tavolo di famiglia. Che era suo. Pensai che ne stavo uscendo. Mi
serviva solo un piccolo aiuto. E dissi si. Si a Paola. Si a Marco il barbone.
Che mi portò una dose. Ma non sapevo niente. Avevo solo bisogno di evadere per
qualche ora da quel maledetto incubo. Accendino, cucchiaio, limone, siringa.
Non so cosa stesse accadendo. Solo che mi trovavo con la cintura sul braccio
come laccio emostatico. Una volta sola. Poi non sarei più venuto qua. Volevo
staccare la mente. E via. Ricordo di essermi svegliato esattamente dove ero
prima. Con la cintura ancora in mano. Sdraiato su quegli scalini. Un viaggio
pazzesco. Non descrivibile. Non so che ore fossero, ma era quasi mattino. Non
andai al lavoro. Avevo un gran mal di stomaco, persino gli occhi mi facevano un
male cane. Andai a casa ma non trovai sonno. Volevo fare colazione ma non avevo
appetito. Decisi di fare una doccia. Dopo qualche ora stavo bene. Come se
niente fosse accaduto. Il padre di Paola in perfetto orario, con quella faccia
comprensiva che mi dava fastidio da anni, due pacche sulla spalla e l’aria di
chi in fondo era dispiaciuto. Ma voleva semplicemente il suo tavolo. Era il
giorno della svolta, abbandonavo il passato completamente, per dedicarmi solo
al mio futuro. Almeno lo credevo. Ma oggi è il quarantasettesimo giorno. Si, li
conto come i respiri che faccio. Sono le nove e qualcosa, non ho più un lavoro,
la banca mi ha licenziato. Da quella sera con Marco il barbone mi sono rifatto
un buco altre nove volte, senza ottenere il risultato iniziale; quello stato di
piacere e benessere esplosivo non è più tornato. E’ solo una situazione di
stallo. Smetterò presto con tutto. Ho perso il lavoro per colpa mia, perché ero
troppo fatto per tre giorni di fila, e di presentarmi al lavoro nemmeno ci ho
pensato. Mi hanno mandato una lettera, io non ho mai chiamato. Ero troppo
preoccupato a pensare e capire dove cristo ero. Ma ora basta cazzo, basta.
Riprendo in mano la mia vita. Non posso buttarmi via per colpa di Paola, lei ha
deciso per se, che cosa devo pagare ancora? Convinzione eterna. Eccomi qua. La
vita continua, non si può tornare indietro. Va tutto bene, ora, va tutto bene. Torno
alla vita vera.
Cinquantesimo giorno.
Questo è il giorno che
mi ha segnato di più. La mia prima overdose. Non ricordo molto bene la
faccenda, com’è andata esattamente. Ricordo solo di essermi svegliato sopra un
lettino della rianimazione. Con una fiala di narcan in circolo e una rabbia
incredibile verso la povera infermiera. Rivedo lo sguardo di mia madre, impietrita;
mio padre invece era fuori a fumare. Paola non era presente. Volevo dirle che
stavo bene, cazzo. Stavo bene. Forse non le importava, questo. Non credo le
importasse più di un cazzo di me. A dire il vero. Mia madre non era spaventata
per il mio disagio, o per quello che mi stava accadendo, il suo vero dramma era
l’aver scoperto che suo figlio stava, anzi, era diventato tossicodipendente, un
vero eroinomane, con la pelle sempre più bianca e le guance ormai scarne
incollate al viso. Con gli occhi spalancati. Grossi come spilli. Per qualche
giorno i miei genitori mi ospitarono a casa con loro, facendomi delle morali
pazzesche, cercando di spiegarmi la vita, senza mai chiedermi come stavo, che
mi era successo, cosa diavolo stavo pensando. Per loro ero un emarginato
sociale, non una persona con un problema. Tornai a casa mia e li convinsi che
tutto era passato. Ero spaventato. Trovai un lavoro in un negozio, la paga era
ok, convinsi tutti che l’unica cosa a cui pensavo era smettere di farmi, in
realtà pensavo solo a Paola, ma era tempo di tirare fuori le palle e andare
avanti a vivere. Questa volta per davvero. Effettivamente per due mesi tutto
benone, lavoro casa, casa lavoro. Domenica a pranzo dai miei sorridenti e
qualche uscita con gli amici. Poi una sera vado bello tranquillo a prendermi
una pizza da asporto. Una domenica. Troppa gente, penso, ma sono bravi e
veloci. Mi metto in coda, slaccio il cappotto che sembra due taglie più grande,
la coppia in coda dietro me ride e scherza. Ascolto la sonora risata e la
riconosco. Mi volto. Paola e il suo nuovo compagno sono davvero felici, si
tengono per mano come non ho mai fatto io con lei. Lui la riempie di attenzioni
e lei sorride. Dai suoi occhi esce il tipico colore dell’amore. Lei alza lo
sguardo. Non dice niente. Non dico niente. Lui mi guarda ma non ha capito chi
sono. Loro vanno ed io resto. Non ci voleva per niente. Ma la vita va solo
avanti, no?
Novantesimo giorno.
La vita è davvero
andata avanti. Ho perso quel lavoro, ho perso la mia casa, ho perso la mia
vita. La mattina mi alzo e guardo il cielo, ogni giorno per me è colore grigio
piombo. Questa comunità è piena di gente, sembrano tutti volersi bene. Lo
psicologo mi ripete continuamente che sarò io a pagare le mie colpe, di non dar
troppo retta alla società che tenderà comunque a condannarmi. Io ho iniziato a
fumare, forse per noia, ma sono pulito da giorni ventuno. Ora sono questi i
giorni che conto, non solo quelli vissuti senza Paola. Non sono abilitato a
lavorare, per ora mi fanno fare le ruote dei passeggini due ore al giorno,
neanche fossi il peggiore dei coglioni. Ho cambiato città, la sera alle otto
vado a dormire. La mattina mi danno il metadone. Non lo so. Nemmeno cosa devo
dire. Ogni giorno penso che la mia idea dell’amore è cambiata. Un tempo mi
piaceva e riempiva le mie giornate. Ora mi chiedo se una parola così bella
possa davvero avere dei risvolti simili. Eppure in cuor mio. L’amo come il
primo giorno.
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