martedì 12 novembre 2013

Grigio Pessimo Umore.

Il rumore della sveglia a dir poco assordante. Occhi spalancati. Che ore sono? Le nove. Le nove e qualcosa. Richiudo gli occhi. Con la mano cerco di fermare questo fastidioso rumore di sirena. Lo fermo al terzo tentativo. Ho un freddo porco. Sono vestito e sotto le coperte, ma ho un freddo maledetto. Non ricordo che giorno è, ma so bene che sono passati quarantasette giorni da quando Paola è andata. Non so nemmeno dove, i primi giorni rispondeva al telefono, dispiaciuta. Poi basta. Una visita, solo una, la prima volta che mi hanno tirato per strada e portato a quel maledetto pronto soccorso. Mi ha detto che le facevo pena, non più amore. Dieci anni, capisci? Dieci anni di questa vita con lei, i respiri di notte, le colazioni, persino l’addio alle bistecche di carne. Tutto cazzo. Tutto. E poi? E poi il fottuto niente. Una mattina salta fuori con delle frasi strane, mai sentite, mai. Che alla fine io sono cambiato, in troppe cose, a quanto pare anche nel modo di parcheggiare la macchina. A quella frase sorrido. Lei no. Mi aveva già fottuto con quell’altro. Ma non sapeva come dirlo. A me, che sono stato l’onestà nella sua vita per anni. E lei non è in grado di dirmelo. Poi lo scopro da me. Lei confessa, con qualche lacrima di troppo. Perché se fai una cosa, non è che ti spiace poi così tanto. Altrimenti non lo fai, no? Io dico non è vero, cazzo, non è vero. E invece si. Tutto finito, mi vomita addosso pure le colpe che non ho, lavarsi l’animo è comodo. Ma ok. Mi ripeto per qualche giorno che sono cose che capitano. A chiunque. Per i primi due giorni l’ho guardata disfare armadi e ascoltata mentre diceva di lasciarla in pace. Per altri due giorni ho guardato il vuoto, l’ho respirato. Come lo spazio lasciato nell’armadio. Come tutta la femminilità andata via da quella casa. Ho pianto fino che avevo lacrime in corpo. Poi ho continuato a piangere. Mi sono addormentato sul divano. Con il telefono in mano, mentre ceravo di chiamarla. Poi ha staccato il telefono. Ho deciso di lavarmi, vestirmi a nuovo, fare due passi in centro. Almeno ci si svaga un poco. Incapace di parlare con qualsiasi individuo, me ne vado a volto basso per le vie. Ho comprato pure delle sigarette. Cazzo, io che non ho mai nemmeno fumato in questi miei trent’anni.  Una sera ho deciso pure di ubriacarmi. Ma non è che sia stato un gran divertimento. Mi sono solo vomitato addosso quello che non avevo mangiato per cena. E mi sono ritrovato con un mal di testa grande come una casa per un paio di giorni. Ho capito che la mia disperazione non ha limite. Non ci avevo mai pensato, prima. Certo, se le cose non ti accadono che cazzo di pretesto usi per pensarci. Non siamo mica scemi. Siamo umani. Ho iniziato a isolarmi sempre più. Anche in ufficio, con i miei amici. La sera ho iniziato a camminare, da solo. Seduto a guardare le persone. Sembravo un matto. Mica lo ero. Solo una persona che ha perso tutto. Di conseguenza con grossa dose di tristezza addosso. Una sera ho dato venti euro per la cena ad un barbone, ho provato stupidamente compassione per lui. In realtà, era lui a compatirmi. Il vero emarginato ero io. Ho iniziato a parlare con lui, ogni sera di più. Passavo a trovarlo. Un tipo simpatico. Certo preso a piccole dosi. Dosi appunto, una sera mi ha offerto una dose, come un vero amico. Eroina. Ho sorriso e detto no grazie. Per diverse sere ho detto di no, ascoltandolo decantare questa siringa come esperienza non paragonabile. Ho sempre detto no. Poi un giorno Paola mi ha scritto di aver cambiato residenza, e che il giorno seguente suo padre sarebbe passato da me a prendere quel vecchio tavolo di famiglia. Che era suo. Pensai che ne stavo uscendo. Mi serviva solo un piccolo aiuto. E dissi si. Si a Paola. Si a Marco il barbone. Che mi portò una dose. Ma non sapevo niente. Avevo solo bisogno di evadere per qualche ora da quel maledetto incubo. Accendino, cucchiaio, limone, siringa. Non so cosa stesse accadendo. Solo che mi trovavo con la cintura sul braccio come laccio emostatico. Una volta sola. Poi non sarei più venuto qua. Volevo staccare la mente. E via. Ricordo di essermi svegliato esattamente dove ero prima. Con la cintura ancora in mano. Sdraiato su quegli scalini. Un viaggio pazzesco. Non descrivibile. Non so che ore fossero, ma era quasi mattino. Non andai al lavoro. Avevo un gran mal di stomaco, persino gli occhi mi facevano un male cane. Andai a casa ma non trovai sonno. Volevo fare colazione ma non avevo appetito. Decisi di fare una doccia. Dopo qualche ora stavo bene. Come se niente fosse accaduto. Il padre di Paola in perfetto orario, con quella faccia comprensiva che mi dava fastidio da anni, due pacche sulla spalla e l’aria di chi in fondo era dispiaciuto. Ma voleva semplicemente il suo tavolo. Era il giorno della svolta, abbandonavo il passato completamente, per dedicarmi solo al mio futuro. Almeno lo credevo. Ma oggi è il quarantasettesimo giorno. Si, li conto come i respiri che faccio. Sono le nove e qualcosa, non ho più un lavoro, la banca mi ha licenziato. Da quella sera con Marco il barbone mi sono rifatto un buco altre nove volte, senza ottenere il risultato iniziale; quello stato di piacere e benessere esplosivo non è più tornato. E’ solo una situazione di stallo. Smetterò presto con tutto. Ho perso il lavoro per colpa mia, perché ero troppo fatto per tre giorni di fila, e di presentarmi al lavoro nemmeno ci ho pensato. Mi hanno mandato una lettera, io non ho mai chiamato. Ero troppo preoccupato a pensare e capire dove cristo ero. Ma ora basta cazzo, basta. Riprendo in mano la mia vita. Non posso buttarmi via per colpa di Paola, lei ha deciso per se, che cosa devo pagare ancora? Convinzione eterna. Eccomi qua. La vita continua, non si può tornare indietro. Va tutto bene, ora, va tutto bene. Torno alla vita vera.

Cinquantesimo giorno.

Questo è il giorno che mi ha segnato di più. La mia prima overdose. Non ricordo molto bene la faccenda, com’è andata esattamente. Ricordo solo di essermi svegliato sopra un lettino della rianimazione. Con una fiala di narcan in circolo e una rabbia incredibile verso la povera infermiera. Rivedo lo sguardo di mia madre, impietrita; mio padre invece era fuori a fumare. Paola non era presente. Volevo dirle che stavo bene, cazzo. Stavo bene. Forse non le importava, questo. Non credo le importasse più di un cazzo di me. A dire il vero. Mia madre non era spaventata per il mio disagio, o per quello che mi stava accadendo, il suo vero dramma era l’aver scoperto che suo figlio stava, anzi, era diventato tossicodipendente, un vero eroinomane, con la pelle sempre più bianca e le guance ormai scarne incollate al viso. Con gli occhi spalancati. Grossi come spilli. Per qualche giorno i miei genitori mi ospitarono a casa con loro, facendomi delle morali pazzesche, cercando di spiegarmi la vita, senza mai chiedermi come stavo, che mi era successo, cosa diavolo stavo pensando. Per loro ero un emarginato sociale, non una persona con un problema. Tornai a casa mia e li convinsi che tutto era passato. Ero spaventato. Trovai un lavoro in un negozio, la paga era ok, convinsi tutti che l’unica cosa a cui pensavo era smettere di farmi, in realtà pensavo solo a Paola, ma era tempo di tirare fuori le palle e andare avanti a vivere. Questa volta per davvero. Effettivamente per due mesi tutto benone, lavoro casa, casa lavoro. Domenica a pranzo dai miei sorridenti e qualche uscita con gli amici. Poi una sera vado bello tranquillo a prendermi una pizza da asporto. Una domenica. Troppa gente, penso, ma sono bravi e veloci. Mi metto in coda, slaccio il cappotto che sembra due taglie più grande, la coppia in coda dietro me ride e scherza. Ascolto la sonora risata e la riconosco. Mi volto. Paola e il suo nuovo compagno sono davvero felici, si tengono per mano come non ho mai fatto io con lei. Lui la riempie di attenzioni e lei sorride. Dai suoi occhi esce il tipico colore dell’amore. Lei alza lo sguardo. Non dice niente. Non dico niente. Lui mi guarda ma non ha capito chi sono. Loro vanno ed io resto. Non ci voleva per niente. Ma la vita va solo avanti, no?

Novantesimo giorno.


La vita è davvero andata avanti. Ho perso quel lavoro, ho perso la mia casa, ho perso la mia vita. La mattina mi alzo e guardo il cielo, ogni giorno per me è colore grigio piombo. Questa comunità è piena di gente, sembrano tutti volersi bene. Lo psicologo mi ripete continuamente che sarò io a pagare le mie colpe, di non dar troppo retta alla società che tenderà comunque a condannarmi. Io ho iniziato a fumare, forse per noia, ma sono pulito da giorni ventuno. Ora sono questi i giorni che conto, non solo quelli vissuti senza Paola. Non sono abilitato a lavorare, per ora mi fanno fare le ruote dei passeggini due ore al giorno, neanche fossi il peggiore dei coglioni. Ho cambiato città, la sera alle otto vado a dormire. La mattina mi danno il metadone. Non lo so. Nemmeno cosa devo dire. Ogni giorno penso che la mia idea dell’amore è cambiata. Un tempo mi piaceva e riempiva le mie giornate. Ora mi chiedo se una parola così bella possa davvero avere dei risvolti simili. Eppure in cuor mio. L’amo come il primo giorno.

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