mercoledì 4 giugno 2014

lupara bianca


il tuo volto guardava altrove
le tue mani fredde si muovevano di continuo

io provavo a restar fermo
ma il moto ondoso di un cuore che batte
è difficile da accettare

la stanza era piena di fumo
tra la luce di pubblicità
ed i rumori della strada

sono riuscito a trovare i tuoi occhi
e tu non hai capito

che volevo solo toccarti l'anima.


giovedì 21 novembre 2013

Le emozioni non restano a galla

LONDRA.
Avevo quasi trent’anni. Ero in quel momento della vita in cui idealmente bisognava decidere se buttarla a pieno sul lavoro. Se fare una famiglia. Io non avevo scelto niente. Niente davvero. Mi ero solo licenziato da quella maledetta azienda di lampade, che mi aveva succhiato tutti i respiri, tutto il sonno, tutta la vita. Non era più cosa, non era più tempo. Ci pensavo nelle birre chiare di ogni sera, quando sei solo e ti chiedi come stai. Ci pensavo e avevo l’ansia. Era tempo di cambiare. Così colsi la palla al balzo. Una mattina di marzo, una mattina di quelle che tutto va storto, di quelle che forse era meglio starsene a casa con le pagine sportive, qualche birra in lattina bella fredda e due tramezzini al tonno. Insomma non avevo scelto bene, quel giorno, e all’ennesimo difetto verbale di un capo che mi conosce da dieci anni, non mi sono neanche incazzato. Nemmeno mezzo sguardo storto. Gli ho solo detto: “Terry, il nostro amore è finito. Sistema tutto. Le carte. I soldi. I giorni. Porto via la mia roba.”  Lui che tanto esigeva e voleva, non era di  certo un fesso, e mi propose mari monti e soldi. Ma non era una questione economica. Qualità della vita. Chiuso li dentro. Con quei neon. Quel monitor. I soliti difetti da troppi anni. Nessuna sfida che potesse entusiasmare le mie giornate. Solo una lunga attesa prima del pub. Lo pensavo tutte le mattine. Era proprio ora di cambiare. A carte fatte. Presi una settimana per me. Per capirmi. Per volermi. Per trovarmi di nuovo da fare. Nei pub di Londra c’è sempre qualcuno. Anche di mattino. Non serve bere, per farti due chiacchiere. Per parlar del più o del meno e non pensare a niente. Conobbi Vins. una simpatica canaglia di mezza età che amava le pinte temperatura ambiente di London Pride. E chiaramente l’odore acre dei pub. Si era appena chiamato fuori dalla sua attività. In parte, almeno. Aveva smesso di lavorarci fisicamente, ma aveva tenuto il controllo. Il Potere. E una buona parte di azioni. La sua azienda faceva pontili galleggianti. Quelli dei porti. Li montava e vendeva in tutto il mondo. Ne parlava con grande dedizione, un amore quasi eterno, lo si vedeva dalle sue mani. E dal suo volto. Vins mi prese in pancia.  Quando gli dissi che ero di Manchester, incollò la pinta al bancone ed esclamò : “Oh Cristo, ragazzo mio, sei nato per andare nei porti. Tu ci sei nato in un porto!”  Sembrava tanto burbero Vins, ma era facile capire subito di quale grande cuore era dotato. Rimase colpito dalla mia storia, non tanto per il lavoro che facevo, ma per l’azzardo, o forse il coraggio con cui mollai tutto. Eravamo persone molto differenti. Ma ci univa la voglia di soddisfazione nel fare le cose. Il dedicarsi in moto assoluto al risultato. Non tanto per tirare sera, ma per fare qualcosa di davvero buono. Ne parlammo tutta la mattina. Fino a quando ordinò due pinte. “Una è per te. E per quello che ti sto per dire.” Girò lo sgabello, spalancò gli occhi e con quelle sue manone piene di segni si stiracchiò un poco la barba.
“Non so quanto tu ne capisca di porti, banchine, ormeggi. Ma vieni da un porto anche tu. Hai voglia e coraggio da vendere. E se vuoi farti qualche giro nel mondo, io un lavoro per te l’ho.”
Non dissi mezza parola. Mi limitai a fare un grande sorriso, annuendo col volto. Alzata la pinta, sancito l’accordo. Avevo trovato qualcuno che credeva in me, nella mia genuinità. Non avrei potuto deluderlo. O quantomeno avrei provato a non farlo. La mattina seguente andai con Vins in azienda, formalità burocratiche, firme, controfirme, e avrei dovuto fare un breve corso, per ben capire cosa dovevo fare, vendere, dire, discutere. Una formazione lampo, insomma. Nel giro di due mesi avevo imparato quasi tutto. Vins seguiva personalmente gli sviluppi, si interessava e faceva in modo non mi mancasse nessuna nozione. Ero ormai un agente commerciale della “RockBak East London” società leader nei pontili da diporto. Mi fecero conoscere qualche cliente, qualche altro agente, in modo da capire bene la realtà delle cose, ed essere ben inserito nel settore. I primi mesi di lavoro furono duri. C’era da capire un sacco di cose, non troppo difficili ma per me sconosciute. Vins mi accompagnava dai clienti in Inghilterra, introducendomi e provando a lasciarmi fare. Dopo qualche tempo mi resi conto che il mio punto forte non era conoscere il prodotto, ma una grande capacità dialettica col cliente, che mi permetteva di riuscire a vendere tutto come fosse pane. I numeri parlavano per me. Nel primo semestre avevo venduto più di qualsiasi novello, e santodio, i porti iniziavano a piacermi davvero. Il loro odore, la gente che li frequentava, la purezza delle persone che incontravo. Gente di porto, senza tanti fronzoli, persone con le palle che puntavano dritto al sodo. Nel mio primo anno feci un lavoro splendido. Pontili, bitte, gallocce, cime, ormeggi, catene, per privati, per grosse aziende. Iniziavo a fiutare dove potevo vendere ancora prima che potessero capire chi fossi. Era ora di andare all’estero. Vins mi disse che ero pronto, che ormai avevo abbastanza esperienza per non farmi fottere da nessuna parte del mondo. Vai ragazzo, vai.  Ero felice di questo, lui aveva creduto in me. E lo stavo ripagando.  Era proprio tempo della mia prima trasferta. Destinazione: Durban, Sudafrica, Istituto di biologia marina. Avrei dovuto stare almeno un mese, parlando con la responsabile biologa; bisognava rifare tutto il pontile dell’Istituto, e lei, assieme a me, avrebbe cercato la soluzione migliore. Ero pronto.
DURBAN.
Il riflesso del sole sull’oceano indiano spaccava di netto le lenti scure dei miei occhiali, in quel pomeriggio d’inizio maggio. Faceva un caldo fottuto e io mi guardavo attorno come un bambino, aspettando la macchina che doveva ritirarmi. La vita sembrava calma e serena, anche se il tasso di criminalità era molto alto. Al primo sguardo la gente sembrava lenta, calma e felice. La macchina arrivò. Il taxi era una vecchia Ford, fuori commercio da almeno dieci anni, con i sedili cotti dal sole. Ma non era certo un problema. Bastava arrivare a destino. L’autista, Zulu, parlava molto bene l’inglese, e mi spiegò che avrei potuto vedere molte cose a Durban, ma di stare attento, che di bianchi qui ce n’erano pochi, e le persone ricordano molto bene il volto di chi combina cazzate. Bell’avvertimento, pensai. Mi sistemai in un bell’albergo, in centro, prenotato dalla società. Ogni  tipo di confort e lusso. Ed un open bar di tutto rispetto, con una spina dedicata di guinness. Insomma tanto male non poteva andare. Feci subito un controllo qualità della birra. Insomma, un mese era lungo e di sera ancora non conoscevo nessuno. Meglio avere certezze.  Cotto dal viaggio e dal fuso orario sprofondai in un sonno ininterrotto. Il giorno dopo, alle otto e trenta precise, ero davanti all’Istituto di biologia, che poggiava la sua sede vicino al porto, dritto e basato sull’oceano. Fumai una lunga sigaretta prima di entrare. In qualche modo ero emozionato. Sicuro, ma emozionato. Entrai con passo deciso, con la mia camicia azzurra portafortuna. Il caldo era parecchio, ma c’era da star tranquilli. Mi presentai alla reception, una signorina con abito rosso e delle scarpe in sughero mi sorrise: “Ah, la stavo aspettando, avviso subito Meri luis, la stava aspettando.” Sorrisi e ringraziai. Nell’attesa sistemai degli incartamenti nella mia ventiquattrore, appoggiato al bancone della reception.
“Mr, Stevens, la stavo aspettando.”
Con una penna in bocca e ancora di spalle risposi “Mi chiami pure Dave”; sistemai la penna e mi voltai. Rimasi di pietra. Accanto alla signorina che mi aveva accolto c’era Meri luis, in tutto il suo splendore.
“Bene Dave, sono Meri luis. Finalmente! È davvero un piacere, ho un sacco di cose da dirle.”
Il suo sorriso mi fece intuire che mi ero ritrovato in un gigante ed eterno pasticcio. Accidenti. Una donna bellissima, sui trenta, forse meno. Alta quasi quanto me, lunghi capelli castano chiaro con dei riflessi biondi, occhi luccicanti. Il camice bianco arrivava circa a metà coscia. Sotto, pelle liscia, bianca, lucida. Gambe lunghe, di quelle da ammattire. Magra ma con le forme giuste al posto giusto. Era bella come una favola. I lineamenti del viso erano molto particolari, di quelli che ti piacciono a dismisura oppure non ti dicono niente, ed ero proiettato sulla prima ipotesi. Scarpe rosse. Tacco alto. Grande portamento.  Non sapevo bene cosa dire, ero rimasto folgorato dal sorriso. Lei mi vide impacciato. “Allora vieni con me?”
“Certo. Certo che si”, risposi. Sarei andato sulla luna. Figuriamoci se non la seguivo. La sua voce, chiara e pacata, mi portò subito a vedere il pontile. Vecchio e malmesso a dire il vero, c’era da fare un gran lavoro. Ma ero li proprio per quello. Non dimentichiamolo.
“Voi inglesi lo bevete il caffè?”
Sorrisi.
Comodi, nella stanza adibita a bar, Meri luis spiegò in modo facile e comprensibile il suo lavoro, le sue mansioni, i motivi che l’avevano portata in quell’istituto, e le sue mani gesticolavano, ma poco; scarne e seducenti, con le vene a vista. La sua voce era orgasmo. I suoi occhi brillavano di luce propria, ci avrei fatto l’amore in tutta quella luce. Lei parlava ed io lentamente capivo che stavo per finire in un guaio chiamato innamoramento. Forse era soltanto colpa del caldo, forse era solo tutta la sua bellezza. Era un dannato lavoro. Dave resta calmo e ascoltala, continuavo a ripetermi.
I motivi per i quali Meri luis aveva fatto strada in fretta erano solidi e basilari, nell’ambiente biologo-marino. La sua era la visione di un mondo post-fossile, rifondato attraverso industrie e consumi improntati alla sostenibilità ecologica; era convinta che ciò che dura e preserva l'ambiente s'imporrà anche economicamente, mentre tutto ciò che minaccia la stabilità, come il carbone o il petrolio, dovrà scomparire. Ma la sua filosofia non si è affermata a Durban, lei era infatti di Pretoria, dove aveva studiato biologia. Questo impiego lo aveva sudato. Ci metteva la mia stessa dedizione nel lavoro. Ne ero assorbito, affascinato. Ero incollato al movimento della sue labbra. Non capivo. Non capivo me stesso, questa cosa non mi era mai successa. Questa donna mi stava per scucire di dosso ogni corazza. E io stavo lavorando. Finito il caffè. Fumammo. Una forse due sigarette. I discorsi erano solo lavorativi. Mai personali. In fondo ci conoscevamo da poche ore. La sua idea di come rifare il pontile era ottima. Piuttosto semplice e funzionale. Aveva già fatto una bozza tutta sua. Ora, con il suo supporto, avrei dovuto realizzare il progetto vero, con costi, pezzi, legni e affini.  Quel giorno parlammo solo di idee e materiali, mi spiegò per filo e per segno ogni dettaglio, come voleva ogni angolo, per facilitare il suo lavoro e quello del suo staff. Ero tutto orecchi. Non mi sarei lasciato scappare mezza parola uscita da quella bocca divina tinta di rosso.  Il primo giorno andò cosi. Tante parole e tanti caffè. Lei era tutto un sorriso. Tornai in albergo. Dopo la doccia, qualche pinta. In veranda. Con gli altri ospiti della struttura. Zitto e solitario. Meri luis come un martello in testa. Da quanto non trovavo una donna cosi! Nemmeno la conoscevo, ma ne ero ormai rapito. Non dovevo farmi pensieri strani. Troppe sigarette in una sera sola. Non ero così confuso da tempo. Giorni, mesi. Anni. Ingollai ancora due rosse, fredde quanto basta. Spensi l’ultima, e andai a dormire. Con quelle gambe stampate dritte sulla testa. L’indomani rieccomi, sempre li. Progetti alla mano, prezzari, misure, materiali. Lei non negava mai un sorriso, ma continuava a restare abbottonata alla sua posizione. Ora dopo ora. Trovavo dei dettagli in lei incredibili, la sua mimica, il suo modo di parlare, i suoi lineamenti in base se i capelli erano sciolti o legati. Il suo modo di darmi ragione o torto. Pontili galleggianti un cazzo. Questa volta ero cotto. Me lo stavo solo negando. La prima settimana si consumò in fretta, riuscivo soltanto ad osservarla senza riuscire a fare altro. “Cazzo, dille qualcosa, Dave, fai qualcosa!”. Ninete. Fermo come marmo, forse impaurito dal possibile rifiuto. E lei si complimentava per le mie idee. Pazzesco.
La domenica non si lavorava. Giornata libera. Dal lavoro. Ma non dai pensieri.  Polo blu. Jeans chiaro. Sole formato maxi. Pacchetto pieno. Una bella camminata nel viavai di gente sulla Golden Mile non mi avrebbe fatto male. Chiamata anche Waterfront, era una camminata di quasi un miglio sul lungomare. Vista eccezionale, hotel di lusso, parchi naturali, ristoranti. Cercavo soltanto di non pensare. Feci avanti indietro almeno tre volte, prima di fermarmi in un bar. Tavoli all’aperto e arredamento bianco, di quelli che in Inghilterra nemmeno a pagare. La cameriera metteva in mostra quasi tutto, ma non ero molto concentrato. Mi limitavo a ordinare birre chiare. Neanche male a dire il vero. Posacenere pieno e sole in fronte.  Avrei voluto sapere dov’era. Meri luis. Dopo una breve sosta in bagno, decisi di cambiare bar, gente, aria. Mi spostai qualche metro più in la. Altro giro. Altra cameriera. Altro bar. Soltanto la mia faccia era la stessa. Presi l’ennesima birra. E trovai un quotidiano. Gente strana a Durban, tutta rapine e sport. Trafili interessanti sulla carta a petrolio. Ne accesi una. Il sole del pomeriggio era maledettamente caldo. Non ero uno da spiaggia. Si sta meglio nei bar. Più gente. Meno lamenti. E hanno sempre da bere. Ero tra l’articolo della signora derubata al terzo piano e la pagina centrale degli eventi cittadini, il tanto aspettato concerto zulu alle porte del giardino botanico. Uno dei più grandi del mondo. Diedi una sorsata, era quasi finita anche questa. La signora del tavolo accanto mi chiese da accendere. Le passai la fiamma senza togliere lo sguardo da cosa stavo leggendo.
Hey, Dave, che ci fai qua?”
Questa voce la conoscevo. Mi girai di scatto. Ed ecco il sorriso che mi stava spaccando testa e cuore, in carne ed ossa.
Leggo il giornale.” L’unica cosa che riuscii a rispondere. Meri luis, bellissima. Finalmente senza quel camice da laboratorio, con un jeans stretto quanto un guanto, una canotta arancio e crema. Delle ballerine. E quei capelli tutti al vento. Era con una sua amica. Che, detto ora, nemmeno ricordo come fosse vestita o svestita.
Insomma, potete sedervi!”, proposi. Andò bene. Presero una birra anche loro. Oddio che dovevo fare. Che ne so. Agitazione e qualche birra addosso. Ma il suo sguardo era diverso. Meno professionale, forse più aperto. Qualche frasi di circostanza. Victoria, l’amica si chiamava Victoria. Chissenefrega. Speravo solo venisse rapita al più presto. Birra, sigarette. Sorrisi. Ed era il mio giorno fortunato. Victoria doveva andarsene, il fidanzato l’attendeva.
E tu, Meri luis, non hai un fidanzato?”
Che bella domanda del cazzo. Si si.  Rispose con un “No.” Secco. Distinto.
Perfetto, allora, io e te ne prendiamo ancora una. Di birra. Eh?” Scosse le spalle e annuì.
La conversazione si fece più personale. Toni non più così seri, ma disponibili e aperti. Insomma, mi stava solo confermando quanto mi piaceva. La sua calma era la stessa di quando lavorava, erano gli scenari ad essere più ampi. Sarei morto su quella sedia. In quel bar. Meri luis. Era interessata anche lei, nessuna domanda banale, niente cazzate. Orecchie drizzate e sorsate fatte bene. Altra birra. Altri discorsi. I suoi studi. Le sue passioni. Il suo bisogno di non avere una relazione con un uomo. Ero incollato, di me avevo parlato poco, quanto basta, ma lei aveva capito. Ogni singola parola. Ogni singola intenzione.
A questo punto ceniamo assieme Dave, ma prima facciamo due passi al concerto, dai!”
Le potevo dire di no? Eccoci incamminati verso il giardino botanico. Lei era allegra e spensierata, e camminava disinvolta. Avrei voluto infilarmi nelle pieghe di quei jeans. Ma non ci pensavo. Godersi il momento. Il sole. La compagnia. In fondo non sarebbe successo un bellissimo niente. E tra due spiegazioni delle vie e una sorta di mini lezione sulla musica zulu eccoci in bocca al giardino botanico. La musica era tambureggiante. Baccano e colori. Gente, sudore. Balli. Fuori dalla mia ordinaria concezione, Meri luis ora era proprio lei, non la biologa, ma la ragazza scalmanata persa dentro i balli. Sorrisi eterni e mani che mi tiravano dentro quel ballo. Un bacio. Denso. Bagnato. Vivo. Di quelli che li vorresti sempre così. Lei sorrideva, io non sapevo più cosa pensare.  Non era nei piani. Stupore, e il mio sorriso divenne grande. Fine dei balli. Sigaretta accesa. Camminiamo. Nessun accenno di parola sul bacio. Sarà stato il momento, pensavo. Mettiti tranquillo e non fare stronzate, Dave. Dai.
Insomma,  Dave, è il caso di fare una doccia, non credi? Non ceneremo mica così!”
Mi tolgo gli occhiali. Ho la faccia sudata e scivolano sul naso.
Ok, allora vado in albergo. Mi cambio. Dove vuoi che ci vediamo?”
Lei scoppiò in un sorriso. E si mise a sedere per terra. Proprio in mezzo alla strada. Io ero nel pieno della sigaretta. Non capivo. Aspettavo.
Ceniamo da me, testone! Ma non lo capisci?”
Cosa? Cosa dovrei capire Meri luis?”
Non capisci che mi piaci? La doccia la fai da me. Ti cambi domani!”.
Incredibile. Non riuscivo a muovere un muscolo, ma dentro di me stava esplodendo la gioia. La rivoluzione. Ero in pieno trasporto e delirio. Che giornata ragazzi miei. La seguivo allegro, e iniziavo a pensare che forse quel bacio non era destinato a restare solo un bacio. Tabacco fumante in bocca, pochi passi ancora. Due vie più dietro arrivammo a casa di Meri luis. Era una casa a schiera. Dentro una via tranquilla, piccolo giardino ordinato. L’esterno era bianco. Col tetto scuro e le ringhiere in ferro battuto. Classica, ma non troppo. Dentro l’arredo era minimo, i colori dominanti erano tre. Il rosso, il bianco e il nero. Ma sembrava ci vivesse da poco, nessun segno di permanenza, oltre al mobilio nessuna foto, nessun quadro, niente di troppo personale che solitamente si mette dentro una casa.
“ ci vivo da poco. Col tempo la farò più mia, come vedi ho ancora la roba nei cartoni”.
Non ci feci troppo caso. Ma alla fine era davvero un tipo strano. Ma se cosi non fosse non ci avrei perso la testa. Meri luis , prese una bottiglia di vino. Via il tappo. Due bicchieri. Sdraiati sul grosso tappeto che copriva quasi per intero il pavimento del salotto. Il divano bianco, era alle nostre spalle. Il vino scendeva freddo dentro lo stomaco. I baci diventavan sempre più caldi. Invece. Ci strappammo di dosso i vestiti. Lei era forse più bella nuda che vestita, le sue forme in evidenza non erano volgari nemmeno un briciolo, quanta eleganza in quel corpo, le curve perfette, omogeneità della sua pelle e quei capelli che le coprivano la faccia, mentre si mordeva un labbro. Avevo le sue mani addosso. Stavo per uscirne pazzo, mentre non smettevo di graffiarle a mio modo la schiena. Avrei voluto toccarla tutta contemporaneamente. Insomma ci stavamo per dare un gran da fare. Ci trasferimmo in doccia. Si. La famosa doccia da fare, che era grossa quasi come la mia camera d’albergo. Una di quelle docce moderne. Ci puoi stare in due. In tre. Seduto. Sdraiato. Tutta in legno. Il vapore e l’acqua calda e due corpi che erano ormai incollati. Incastrati e non solo per metafora. C’era solo il rumore dell’acqua che scendeva. I miei respiri. Lei che ansimava. Non riuscivo a smettere di morsicarla, mentre l’atto prendeva forma tra occhi chiusi e versi , piacere intenso e nessun lavoro mentale. Poi di colpo mi spinse via. Contro la parete della doccia, io non cambiai sguardo. Nessuna parola. Mi tornò contro e con le mani contro il petto mi dava dei piccoli morsi.
“ vieni con me a Parigi. Dai. Partiamo domani, che resti a fare qui senza di me.”
Poi scoppio a ridere. Fuori dalla doccia. Asciugamani puliti. Una sigaretta a capelli bagnati. Poi comodi sul letto, e dopo conversazione a risate. Rieccoci di nuovo senza niente addosso. Fare l’amore prima di cena mette un certo appetito. Lei cucinò per me. Pollo al curry con del riso, saltato, birra fresca, poi delle fragole. Il tavolo della cucina era rosso, e non avevo mai visto una stanza così pulita in vita mia.
“senti oggi è andata cosi Dave. Domani dobbiamo lavorare, tra me e te non so bene cosa accadrà. Ora dammi un bacio. Stringimi un po’. E poi io voglio dormire.”
Feci proprio cosi. Un bacio. Stretta tra le mie braccia. Pulito e profumato. Rimessi i vestiti addosso ero per le vie in cerca del mio albergo. Tanto allegro tanto euforico tanto pensieroso. E ora? Ora che cazzo sarebbe successo. L’indomani un casino, avremmo dovuto lavorare assieme. Per assurdo Meri luis non sapevo nemmeno chi fosse. Mi aveva solo rapito l’animo. Forse anche la testa ora. A pensarci bene. dovevo solo stare calmo. Una bella dormita avrebbe sistemato ogni pensiero. Forse con due cognac prima, certo, ma l’indomani avrei fatto come se nulla fosse accaduto.

LUNEDI.
Arrivai presto all’istituto, altra doccia fatta, vestiti puliti, la barba fatta quella no. Ma l’aria di festa dentro me non era passata. Ero di ottimo umore. Entrai a passi veloci. Il sole era davvero caldo. Entrai sorridendo.
“buongiorno Dave, come stiamo?” mi sorrise la simpatica ragazza in reception.
“tutto benone cara. Meri luis è già qua?”
“ehm … veramente… ma non lo sai?”
Rimasi fermo qualche secondo. “non sai cosa? Dimmi.”
Appoggiò la cornetta del telefono con la quale stava giocando. “ non lo sai che da oggi Meri luis non lavora più qua.?”
Di ghiaccio. Mollai la ventiquattrore sul pavimento. Le mani in tasca alla ricerca di qualcosa da fumare.
“dove è andata? Dimmi dove.”
“Dave lei ha vinto una borsa a Parigi. era importante per lei, ma credevo ti avesse…. Detto.. che.. ha lasciato questa busta per te. Comunque tieni. “
Presi la busta senza dire una parola. Ero sconcertato. Forse per il film che mi ero fatto in testa, forse mi rendevo conto perché in casa la roba era inscatolata. Perché stava partendo! E quella frase su Parigi. Non era una battuta. Era vera. Maledizione. Che stronzo. Ora le cose mi si facevano più chiare. Forse no. Mari luis accidenti. Dovevi proprio farmi innamorare e poi sparire? Ma forse era il suo marchio. Ero suo. E non le servivo. È andata. Senza dirmi niente. Facendomi capire tutto.
Sigaretta. Seduto. Mi aveva lasciato un pacco con tutte le istruzioni per il lavoro. Progetto già finito. Era solo da mettere in opera. Era solo da mandare al costruttore. Per la prima volta da quando ero arrivato Londra mi sembrava cosi lontana e iniziava a mancarmi. Come l’odore dei pub e la mia gente. Ma non come Meri luis. Sfogliavo il progetto. Malinconico. Cadde per terra un biglietto giallo. Lo raccolsi. Sopra c’era un bacio col rossetto. E questo indirizzo : hotel alexandrine opera, 10 rue de moscou 75008 Paris.
Feci un sorriso e un respiro profondo. Era lunedì , faceva caldo. Il pacchetto di sigarette era pieno.

giovedì 14 novembre 2013

Nel nome del padre

Franco Rambelli era uno tutto casa lavoro famiglia. Direttore di banca, professionale come pochi, marito eccezionale, padre premuroso. L’uomo che tutti vorrebbero essere. Vorrebbero avere. Uno di quelli che ti sorridono sempre, mai un tono di voce sbagliato. Mai niente di non razionale e non ragionato. Sveglia presto, doccia, barba e di corsa a preparare la colazione, dei figli da portare a scuola, ed una moglie sempre troppo stanca per le mansioni domestiche da coccolare. A cui dare sicurezza. Una famiglia ed una situazione che nemmeno il film più romantico e solidale potrebbero descrivere.
Era un giorno di inizio dicembre. Uno di quelli che ti svegli e fuori è tutto bianco. Niente neve, solo ghiaccio. Cappotti pesanti e parabrezza da sbrinare. Solita routine, solito giro, solita vita. L’arrivo in ufficio. Due persone della dirigenza dell’istituto di credito nella filiale. Niente di cui avere pensieri. Solita visita di controllo. Il direttore Rambelli mostra il solito sorriso e offre dei caffè, ma i due ragazzotti dall’abito corvino non hanno l’aria di dover dare notizie simpatiche. Niente battute. Niente frasi di circostanza. Semplicemente: “Franco, andiamo in ufficio, c’è da parlare di una cosa.” Un silenzio di quelli che ti fanno tremare il sangue. Ma Franco era calmo. Forse troppo. Ottimo lavoratore e persona di fiducia; era tutto orecchi. Insomma, signori miei, la notizia era di quelle che ti cambiano la giornata. Di quelle che se hai anche solo un motivo per sentirti felice ti sotterrano. Secondo la nuova normativa, l’istituto di credito doveva fare dei tagli pesanti al personale. E lo stipendio di Franco era uno di quelli pesanti. Toccava a lui, e a molti altri nella sua posizione. Si era deciso per un cambio generazionale, gente giovane, meno esperta e meno affidabile, ma con fame di diventare qualcuno, con tanta voglia di mettersi in gioco, e senza giri di parole inutili. Con dei costi molto minori. Franco non poteva credere alle sue orecchie, anni, mesi, giorni, ore di lavoro dedito e attento. Quella che lui riteneva la sua seconda famiglia lo stava mettendo al muro, senza possibilità, senza via d’uscita. Semplicemente tagliando una testa. Come fosse quella di chiunque. Non sapeva nemmeno cosa dire. Oltre allo sconforto. Oltre ai problemi. Il suo lavoro era la cosa in cui si immergeva e con cui si sentiva una persona migliore. Poche parole di conforto da bocche fredde, inespressive. Era stato fatto fuori. Un colpo di pistola in pieno petto. Bum e basta. Giorni trenta di preavviso per abbandonare la propria sede lavorativa e trovarsi un nuovo lavoro, o capire cosa fare della propria vita. Certo di soldi per andarsene ne davano parecchi. Un bel quantitativo. Ma non erano i soldi il problema. Era tutto il maledetto resto. I due della dirigenza presero il via e lasciarono Franco Rambelli nell’inferno dei suoi pensieri. Il sorriso dal suo volto era completamente scomparso. Quel sorriso che lo distingueva dalle persone pensierose. Perché ora ne faceva parte. E non riusciva proprio a mostrare i denti. Proprio no. Per la prima volta in tutta la sua carriera Franco Rambelli finse un malore, e si prese il pomeriggio libero. Qualche km con la sua berlina di grossa cilindrata tedesca. A far fumare la testa. A cercare di mettere ordine in un casino che non aveva mai nemmeno immaginato. Chissà come dirlo alla moglie. Ai figli. La situazione economica della famiglia. E ora? E adesso? Le rette delle scuole, le bollette, un nuovo lavoro da cercare. E chissà cosa avrebbe pensato la gente. Era un momento di crisi. Per lui era sempre stato molto più di un lavoro. Era la sua sicurezza. Ciò che lo faceva sentire padre, uomo, marito. Una persona dannatamente sicura. Guidava con prudenza, ma gli occhi erano color disperazione misto lacrime. Non sapeva nemmeno da che parte iniziare a prenderla. Franco Rambelli si era seduto su una panchina dentro un parco. Di quelli dove ci sono dei giochi, dove l’erba è davvero verde e la gente sembra felice. Anche solo a guardarla. Il buco della sua inquietudine disperata si faceva largo fin dentro al suo stomaco. Iniziò a camminare, e si accorse che al di fuori del parco c’era gente che come lui camminava. Certo meno disperata. O forse di più. Si accorse di come questo mondo non fosse corrisposto a lui. Nei pomeriggi della sua vita era sempre stato dentro una banca, a sorridere ma anche a decidere, a farsi carico di cose, a non godersi quel che il mondo offriva. Era la sua normalità. La sua missione. Quel pomeriggio continuava sotto le suole delle inglesi scarpe di Franco Rambelli, che come una persona senza identità continuava a vagare, calciando un sasso e guardando disperatamente ogni attività lavorativa funzionante davanti ai suoi occhi. Entrò in un bar e prese un caffè. Il suo sguardo stava per bucare il bancone, così decise di svuotarsi l’anima e tornare camminando alla sua automobile. Si rimise alla guida, pensando e ripensando che era ora di tornare a casa. L’ansia su come comunicare alla famiglia questa cosa, faceva da padrone alla situazione. Il sudore si faceva vivo ed il respiro affannoso. Franco Rambelli sembrava una persona posseduta. Non riusciva a tirare fuori una parola. La vita di casa si faceva sempre più vicina, mentre l’asfalto correva sotto le ruote come un vortice. La pressione di un maschio adulto responsabile, legato a dei valori lavorativi e di famiglia, cresciuto con dei principi. Un maschio che si rispecchiava nel lavoro. La villetta di Franco Rambelli era ormai visibile a pochi metri. Il cielo stava per imbrunire e la sua camicia era pulita. Imboccato il vialetto di casa aspettò qualche istante che la basculante del box si alzasse lentamente. Un colpo di acceleratore. E spense la macchina. Rimase un paio di minuti dentro l’abitacolo a veicolo spento. Non sapeva cosa fare. E’ una situazione, uno smacco che una persona del suo calibro non riuscivano ad accettare. Scese dalla macchina. I suoi occhi erano immobili. Trasudavano follia. Si tolse le scarpe e aprì l’armadietto contenente la sua roba da caccia. Uno sguardo veloce al fucile. Alle munizioni. Il sabato era lontano. I problemi erano altri. Salì le scale con calma. Molta calma. La moglie gli sorrise ma subito ebbe l’impressione che qualcosa non andava. Stava cucinando il pollo e con le mani sporche di farina domandò come era andata in ufficio. Franco Rambelli non riuscì ad emettere un solo suono. Andò verso la moglie. Era fuori di se. La prese in un abbraccio. Stretto. Di quelli che non c’è da dire niente. La moglie non capiva. Non capiva ancora niente. Franco Rambelli allungò la mano sulla cucina e prese il grosso coltello con il quale la moglie stava tagliando il pollo. Lo prese bene e strinse la sua mano. Pochi secondi. Pochi. Quando lasciò il coltello, questo era infilato nello stomaco della moglie. Che spalancò gli occhi. E si accasciò al suolo. Perdeva sangue. Tanto. Tantissimo. Un fiume. Dei leggeri gemiti. Ma niente urla. Il sangue copriva pian piano il pavimento di tutta la cucina. E la suola delle scarpe di Franco Rambelli. I bambini stavano scendendo le scale. Scoppiarono in un urlo infinito. Franco Rambelli uscì di casa. E restò immobile. Diversi minuti. Iniziava a tornare in se. Iniziava a capire cosa aveva fatto. Cosa era accaduto. Iniziava ad accorgersi che forse non è un lavoro a cambiarti la vita. Ma le persone. Che forse hanno importanza le cose buone della vita. Non quanto sei ben visto, quanto sei ricco o che posizione aziendale hai. Ma era troppo tardi. Forse era troppo tardi.

martedì 12 novembre 2013

Grigio Pessimo Umore.

Il rumore della sveglia a dir poco assordante. Occhi spalancati. Che ore sono? Le nove. Le nove e qualcosa. Richiudo gli occhi. Con la mano cerco di fermare questo fastidioso rumore di sirena. Lo fermo al terzo tentativo. Ho un freddo porco. Sono vestito e sotto le coperte, ma ho un freddo maledetto. Non ricordo che giorno è, ma so bene che sono passati quarantasette giorni da quando Paola è andata. Non so nemmeno dove, i primi giorni rispondeva al telefono, dispiaciuta. Poi basta. Una visita, solo una, la prima volta che mi hanno tirato per strada e portato a quel maledetto pronto soccorso. Mi ha detto che le facevo pena, non più amore. Dieci anni, capisci? Dieci anni di questa vita con lei, i respiri di notte, le colazioni, persino l’addio alle bistecche di carne. Tutto cazzo. Tutto. E poi? E poi il fottuto niente. Una mattina salta fuori con delle frasi strane, mai sentite, mai. Che alla fine io sono cambiato, in troppe cose, a quanto pare anche nel modo di parcheggiare la macchina. A quella frase sorrido. Lei no. Mi aveva già fottuto con quell’altro. Ma non sapeva come dirlo. A me, che sono stato l’onestà nella sua vita per anni. E lei non è in grado di dirmelo. Poi lo scopro da me. Lei confessa, con qualche lacrima di troppo. Perché se fai una cosa, non è che ti spiace poi così tanto. Altrimenti non lo fai, no? Io dico non è vero, cazzo, non è vero. E invece si. Tutto finito, mi vomita addosso pure le colpe che non ho, lavarsi l’animo è comodo. Ma ok. Mi ripeto per qualche giorno che sono cose che capitano. A chiunque. Per i primi due giorni l’ho guardata disfare armadi e ascoltata mentre diceva di lasciarla in pace. Per altri due giorni ho guardato il vuoto, l’ho respirato. Come lo spazio lasciato nell’armadio. Come tutta la femminilità andata via da quella casa. Ho pianto fino che avevo lacrime in corpo. Poi ho continuato a piangere. Mi sono addormentato sul divano. Con il telefono in mano, mentre ceravo di chiamarla. Poi ha staccato il telefono. Ho deciso di lavarmi, vestirmi a nuovo, fare due passi in centro. Almeno ci si svaga un poco. Incapace di parlare con qualsiasi individuo, me ne vado a volto basso per le vie. Ho comprato pure delle sigarette. Cazzo, io che non ho mai nemmeno fumato in questi miei trent’anni.  Una sera ho deciso pure di ubriacarmi. Ma non è che sia stato un gran divertimento. Mi sono solo vomitato addosso quello che non avevo mangiato per cena. E mi sono ritrovato con un mal di testa grande come una casa per un paio di giorni. Ho capito che la mia disperazione non ha limite. Non ci avevo mai pensato, prima. Certo, se le cose non ti accadono che cazzo di pretesto usi per pensarci. Non siamo mica scemi. Siamo umani. Ho iniziato a isolarmi sempre più. Anche in ufficio, con i miei amici. La sera ho iniziato a camminare, da solo. Seduto a guardare le persone. Sembravo un matto. Mica lo ero. Solo una persona che ha perso tutto. Di conseguenza con grossa dose di tristezza addosso. Una sera ho dato venti euro per la cena ad un barbone, ho provato stupidamente compassione per lui. In realtà, era lui a compatirmi. Il vero emarginato ero io. Ho iniziato a parlare con lui, ogni sera di più. Passavo a trovarlo. Un tipo simpatico. Certo preso a piccole dosi. Dosi appunto, una sera mi ha offerto una dose, come un vero amico. Eroina. Ho sorriso e detto no grazie. Per diverse sere ho detto di no, ascoltandolo decantare questa siringa come esperienza non paragonabile. Ho sempre detto no. Poi un giorno Paola mi ha scritto di aver cambiato residenza, e che il giorno seguente suo padre sarebbe passato da me a prendere quel vecchio tavolo di famiglia. Che era suo. Pensai che ne stavo uscendo. Mi serviva solo un piccolo aiuto. E dissi si. Si a Paola. Si a Marco il barbone. Che mi portò una dose. Ma non sapevo niente. Avevo solo bisogno di evadere per qualche ora da quel maledetto incubo. Accendino, cucchiaio, limone, siringa. Non so cosa stesse accadendo. Solo che mi trovavo con la cintura sul braccio come laccio emostatico. Una volta sola. Poi non sarei più venuto qua. Volevo staccare la mente. E via. Ricordo di essermi svegliato esattamente dove ero prima. Con la cintura ancora in mano. Sdraiato su quegli scalini. Un viaggio pazzesco. Non descrivibile. Non so che ore fossero, ma era quasi mattino. Non andai al lavoro. Avevo un gran mal di stomaco, persino gli occhi mi facevano un male cane. Andai a casa ma non trovai sonno. Volevo fare colazione ma non avevo appetito. Decisi di fare una doccia. Dopo qualche ora stavo bene. Come se niente fosse accaduto. Il padre di Paola in perfetto orario, con quella faccia comprensiva che mi dava fastidio da anni, due pacche sulla spalla e l’aria di chi in fondo era dispiaciuto. Ma voleva semplicemente il suo tavolo. Era il giorno della svolta, abbandonavo il passato completamente, per dedicarmi solo al mio futuro. Almeno lo credevo. Ma oggi è il quarantasettesimo giorno. Si, li conto come i respiri che faccio. Sono le nove e qualcosa, non ho più un lavoro, la banca mi ha licenziato. Da quella sera con Marco il barbone mi sono rifatto un buco altre nove volte, senza ottenere il risultato iniziale; quello stato di piacere e benessere esplosivo non è più tornato. E’ solo una situazione di stallo. Smetterò presto con tutto. Ho perso il lavoro per colpa mia, perché ero troppo fatto per tre giorni di fila, e di presentarmi al lavoro nemmeno ci ho pensato. Mi hanno mandato una lettera, io non ho mai chiamato. Ero troppo preoccupato a pensare e capire dove cristo ero. Ma ora basta cazzo, basta. Riprendo in mano la mia vita. Non posso buttarmi via per colpa di Paola, lei ha deciso per se, che cosa devo pagare ancora? Convinzione eterna. Eccomi qua. La vita continua, non si può tornare indietro. Va tutto bene, ora, va tutto bene. Torno alla vita vera.

Cinquantesimo giorno.

Questo è il giorno che mi ha segnato di più. La mia prima overdose. Non ricordo molto bene la faccenda, com’è andata esattamente. Ricordo solo di essermi svegliato sopra un lettino della rianimazione. Con una fiala di narcan in circolo e una rabbia incredibile verso la povera infermiera. Rivedo lo sguardo di mia madre, impietrita; mio padre invece era fuori a fumare. Paola non era presente. Volevo dirle che stavo bene, cazzo. Stavo bene. Forse non le importava, questo. Non credo le importasse più di un cazzo di me. A dire il vero. Mia madre non era spaventata per il mio disagio, o per quello che mi stava accadendo, il suo vero dramma era l’aver scoperto che suo figlio stava, anzi, era diventato tossicodipendente, un vero eroinomane, con la pelle sempre più bianca e le guance ormai scarne incollate al viso. Con gli occhi spalancati. Grossi come spilli. Per qualche giorno i miei genitori mi ospitarono a casa con loro, facendomi delle morali pazzesche, cercando di spiegarmi la vita, senza mai chiedermi come stavo, che mi era successo, cosa diavolo stavo pensando. Per loro ero un emarginato sociale, non una persona con un problema. Tornai a casa mia e li convinsi che tutto era passato. Ero spaventato. Trovai un lavoro in un negozio, la paga era ok, convinsi tutti che l’unica cosa a cui pensavo era smettere di farmi, in realtà pensavo solo a Paola, ma era tempo di tirare fuori le palle e andare avanti a vivere. Questa volta per davvero. Effettivamente per due mesi tutto benone, lavoro casa, casa lavoro. Domenica a pranzo dai miei sorridenti e qualche uscita con gli amici. Poi una sera vado bello tranquillo a prendermi una pizza da asporto. Una domenica. Troppa gente, penso, ma sono bravi e veloci. Mi metto in coda, slaccio il cappotto che sembra due taglie più grande, la coppia in coda dietro me ride e scherza. Ascolto la sonora risata e la riconosco. Mi volto. Paola e il suo nuovo compagno sono davvero felici, si tengono per mano come non ho mai fatto io con lei. Lui la riempie di attenzioni e lei sorride. Dai suoi occhi esce il tipico colore dell’amore. Lei alza lo sguardo. Non dice niente. Non dico niente. Lui mi guarda ma non ha capito chi sono. Loro vanno ed io resto. Non ci voleva per niente. Ma la vita va solo avanti, no?

Novantesimo giorno.


La vita è davvero andata avanti. Ho perso quel lavoro, ho perso la mia casa, ho perso la mia vita. La mattina mi alzo e guardo il cielo, ogni giorno per me è colore grigio piombo. Questa comunità è piena di gente, sembrano tutti volersi bene. Lo psicologo mi ripete continuamente che sarò io a pagare le mie colpe, di non dar troppo retta alla società che tenderà comunque a condannarmi. Io ho iniziato a fumare, forse per noia, ma sono pulito da giorni ventuno. Ora sono questi i giorni che conto, non solo quelli vissuti senza Paola. Non sono abilitato a lavorare, per ora mi fanno fare le ruote dei passeggini due ore al giorno, neanche fossi il peggiore dei coglioni. Ho cambiato città, la sera alle otto vado a dormire. La mattina mi danno il metadone. Non lo so. Nemmeno cosa devo dire. Ogni giorno penso che la mia idea dell’amore è cambiata. Un tempo mi piaceva e riempiva le mie giornate. Ora mi chiedo se una parola così bella possa davvero avere dei risvolti simili. Eppure in cuor mio. L’amo come il primo giorno.

lunedì 11 novembre 2013

Pasta al pomodoro.

è stato strano non dormire
è stato strano sudare alcol

ancora meglio vedere il sole
ancora bello sentire il vento

dentro gli occhi vetri rotti
dentro il cuore asfalto bagnato

non trovavo le chiavi
e mi sono accorto

che il corridoio
puzzava solo di scale.

E non di te.



mercoledì 28 agosto 2013

I ragazzi fanno grandi sogni.



Il Danubio correva lento. Nessuna resistenza. Giù verso sud. Il Sud. La nostra Casa. Qua,a sud di questa citta. Là, al sud nella nostra Terra. L’Italia. Cosa facessimo qui, nemmeno Gesù lo ricorda. Ma poco importa. I passi dei turisti li vedi diversi da quelli che ci abitano. Loro sembrano fragili e ricchi. Noi poveri e felici. Non so bene come spiegarlo. Ma è cosi. Un pomeriggio come tanti. Tardo pomeriggio. Hai poco da fare quando hai poco da spendere e del tempo da passare. La Ludo aveva il suo vestito arancio, quello di quando hai davvero freddo. Lana pesante, di quelle che scaldano anche gli organi e le ossa. Sopra un cappotto verdone. Liscio. Le gambe rannicchiate sopra il davanzale del finestrone di casa. Il più grande e con la visuale migliore. Le scale antincendio. Quelle che quando le usi hai bisogno di correre e non cadere. Di un rosso vivo e scrostato allo stesso tempo. Davano carattere alla nostra grigia palazzina comunista e lei le adorava. Una rollata di tabacco buono. Come il vestito della domenica. Stava lì. Persa nei suoi pensieri. Il freddo non le appannava la mente. Fuori. Sul pianerottolo di quelle scale carta velina, al primo gradino stava seduto Sisto. Bello vestito come un vero ometto. Se la leggeva beato .Sotto il sedere dei fogli di giornale, per non fare ghiacciare il fustagno dei suoi pantaloni. 1984. Era il libro che stava leggendo. A voce alta. Per assimilare meglio. Di tanto in tanto della cenere svolazzava. Sisto alzava lo sguardo. Nulla. Solo la sigaretta della Ludo. Nessun fastidio. Solo la speranza in una nevicata di quelle buone, un motivo romantico per patire quell’aria gelida. “Mannaggia!Ancoraaa!” Edda. Nell’altra stanza. Un misto di rabbia ,rassegnazione e dolore, al limite della comicità. La nostra lavatrice stava tirando gli ultimi respiri di una vita fatta di lavaggi e prelavaggi. La guarnizione perdeva acqua. Roba da cambiarla. Ma per ora Edda si limita a litigarci tutti i giorni, come una moglie petulante. “Le patate, cazzo. Le patate!” Un balzo della Ludo. Il mozzicone di sigaretta a mezz’aria. Per la precisione, in balia dell’aria. E Sisto in balia del mozzicone. La nonna diceva sempre che per la cucina italiana ci vuole tempo e passione. Forse è per questo che l’odore di bruciato stava per invadere tutta la casa. La Ludo si era fumata il tabacco della festa e si è giocata le patate, noi il contorno della cena. Ma c’è di peggio dicono. Sicuramente sarà cosi.

mercoledì 21 agosto 2013

Storie d'America.

Le maniche abbassate
Il caldo a volte va via

Restano tutti i pensieri
Tra i cubetti di ghiaccio

Dei  miei drink finiti
Ho le mani pulite

Mi sento bene e niente sonno
Non mi manca niente

A parte te.
Che il lenzuolo non profuma di niente
Stanotte.