giovedì 14 novembre 2013

Nel nome del padre

Franco Rambelli era uno tutto casa lavoro famiglia. Direttore di banca, professionale come pochi, marito eccezionale, padre premuroso. L’uomo che tutti vorrebbero essere. Vorrebbero avere. Uno di quelli che ti sorridono sempre, mai un tono di voce sbagliato. Mai niente di non razionale e non ragionato. Sveglia presto, doccia, barba e di corsa a preparare la colazione, dei figli da portare a scuola, ed una moglie sempre troppo stanca per le mansioni domestiche da coccolare. A cui dare sicurezza. Una famiglia ed una situazione che nemmeno il film più romantico e solidale potrebbero descrivere.
Era un giorno di inizio dicembre. Uno di quelli che ti svegli e fuori è tutto bianco. Niente neve, solo ghiaccio. Cappotti pesanti e parabrezza da sbrinare. Solita routine, solito giro, solita vita. L’arrivo in ufficio. Due persone della dirigenza dell’istituto di credito nella filiale. Niente di cui avere pensieri. Solita visita di controllo. Il direttore Rambelli mostra il solito sorriso e offre dei caffè, ma i due ragazzotti dall’abito corvino non hanno l’aria di dover dare notizie simpatiche. Niente battute. Niente frasi di circostanza. Semplicemente: “Franco, andiamo in ufficio, c’è da parlare di una cosa.” Un silenzio di quelli che ti fanno tremare il sangue. Ma Franco era calmo. Forse troppo. Ottimo lavoratore e persona di fiducia; era tutto orecchi. Insomma, signori miei, la notizia era di quelle che ti cambiano la giornata. Di quelle che se hai anche solo un motivo per sentirti felice ti sotterrano. Secondo la nuova normativa, l’istituto di credito doveva fare dei tagli pesanti al personale. E lo stipendio di Franco era uno di quelli pesanti. Toccava a lui, e a molti altri nella sua posizione. Si era deciso per un cambio generazionale, gente giovane, meno esperta e meno affidabile, ma con fame di diventare qualcuno, con tanta voglia di mettersi in gioco, e senza giri di parole inutili. Con dei costi molto minori. Franco non poteva credere alle sue orecchie, anni, mesi, giorni, ore di lavoro dedito e attento. Quella che lui riteneva la sua seconda famiglia lo stava mettendo al muro, senza possibilità, senza via d’uscita. Semplicemente tagliando una testa. Come fosse quella di chiunque. Non sapeva nemmeno cosa dire. Oltre allo sconforto. Oltre ai problemi. Il suo lavoro era la cosa in cui si immergeva e con cui si sentiva una persona migliore. Poche parole di conforto da bocche fredde, inespressive. Era stato fatto fuori. Un colpo di pistola in pieno petto. Bum e basta. Giorni trenta di preavviso per abbandonare la propria sede lavorativa e trovarsi un nuovo lavoro, o capire cosa fare della propria vita. Certo di soldi per andarsene ne davano parecchi. Un bel quantitativo. Ma non erano i soldi il problema. Era tutto il maledetto resto. I due della dirigenza presero il via e lasciarono Franco Rambelli nell’inferno dei suoi pensieri. Il sorriso dal suo volto era completamente scomparso. Quel sorriso che lo distingueva dalle persone pensierose. Perché ora ne faceva parte. E non riusciva proprio a mostrare i denti. Proprio no. Per la prima volta in tutta la sua carriera Franco Rambelli finse un malore, e si prese il pomeriggio libero. Qualche km con la sua berlina di grossa cilindrata tedesca. A far fumare la testa. A cercare di mettere ordine in un casino che non aveva mai nemmeno immaginato. Chissà come dirlo alla moglie. Ai figli. La situazione economica della famiglia. E ora? E adesso? Le rette delle scuole, le bollette, un nuovo lavoro da cercare. E chissà cosa avrebbe pensato la gente. Era un momento di crisi. Per lui era sempre stato molto più di un lavoro. Era la sua sicurezza. Ciò che lo faceva sentire padre, uomo, marito. Una persona dannatamente sicura. Guidava con prudenza, ma gli occhi erano color disperazione misto lacrime. Non sapeva nemmeno da che parte iniziare a prenderla. Franco Rambelli si era seduto su una panchina dentro un parco. Di quelli dove ci sono dei giochi, dove l’erba è davvero verde e la gente sembra felice. Anche solo a guardarla. Il buco della sua inquietudine disperata si faceva largo fin dentro al suo stomaco. Iniziò a camminare, e si accorse che al di fuori del parco c’era gente che come lui camminava. Certo meno disperata. O forse di più. Si accorse di come questo mondo non fosse corrisposto a lui. Nei pomeriggi della sua vita era sempre stato dentro una banca, a sorridere ma anche a decidere, a farsi carico di cose, a non godersi quel che il mondo offriva. Era la sua normalità. La sua missione. Quel pomeriggio continuava sotto le suole delle inglesi scarpe di Franco Rambelli, che come una persona senza identità continuava a vagare, calciando un sasso e guardando disperatamente ogni attività lavorativa funzionante davanti ai suoi occhi. Entrò in un bar e prese un caffè. Il suo sguardo stava per bucare il bancone, così decise di svuotarsi l’anima e tornare camminando alla sua automobile. Si rimise alla guida, pensando e ripensando che era ora di tornare a casa. L’ansia su come comunicare alla famiglia questa cosa, faceva da padrone alla situazione. Il sudore si faceva vivo ed il respiro affannoso. Franco Rambelli sembrava una persona posseduta. Non riusciva a tirare fuori una parola. La vita di casa si faceva sempre più vicina, mentre l’asfalto correva sotto le ruote come un vortice. La pressione di un maschio adulto responsabile, legato a dei valori lavorativi e di famiglia, cresciuto con dei principi. Un maschio che si rispecchiava nel lavoro. La villetta di Franco Rambelli era ormai visibile a pochi metri. Il cielo stava per imbrunire e la sua camicia era pulita. Imboccato il vialetto di casa aspettò qualche istante che la basculante del box si alzasse lentamente. Un colpo di acceleratore. E spense la macchina. Rimase un paio di minuti dentro l’abitacolo a veicolo spento. Non sapeva cosa fare. E’ una situazione, uno smacco che una persona del suo calibro non riuscivano ad accettare. Scese dalla macchina. I suoi occhi erano immobili. Trasudavano follia. Si tolse le scarpe e aprì l’armadietto contenente la sua roba da caccia. Uno sguardo veloce al fucile. Alle munizioni. Il sabato era lontano. I problemi erano altri. Salì le scale con calma. Molta calma. La moglie gli sorrise ma subito ebbe l’impressione che qualcosa non andava. Stava cucinando il pollo e con le mani sporche di farina domandò come era andata in ufficio. Franco Rambelli non riuscì ad emettere un solo suono. Andò verso la moglie. Era fuori di se. La prese in un abbraccio. Stretto. Di quelli che non c’è da dire niente. La moglie non capiva. Non capiva ancora niente. Franco Rambelli allungò la mano sulla cucina e prese il grosso coltello con il quale la moglie stava tagliando il pollo. Lo prese bene e strinse la sua mano. Pochi secondi. Pochi. Quando lasciò il coltello, questo era infilato nello stomaco della moglie. Che spalancò gli occhi. E si accasciò al suolo. Perdeva sangue. Tanto. Tantissimo. Un fiume. Dei leggeri gemiti. Ma niente urla. Il sangue copriva pian piano il pavimento di tutta la cucina. E la suola delle scarpe di Franco Rambelli. I bambini stavano scendendo le scale. Scoppiarono in un urlo infinito. Franco Rambelli uscì di casa. E restò immobile. Diversi minuti. Iniziava a tornare in se. Iniziava a capire cosa aveva fatto. Cosa era accaduto. Iniziava ad accorgersi che forse non è un lavoro a cambiarti la vita. Ma le persone. Che forse hanno importanza le cose buone della vita. Non quanto sei ben visto, quanto sei ricco o che posizione aziendale hai. Ma era troppo tardi. Forse era troppo tardi.

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